Quattru fimmine e un tarì - Vanda Rapisardi - Video
PUBLISHED:  Sep 17, 2013
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"La riproposizione di questa cantilena tipica del nostro mondo contadino, quale era nel secolo scorso fino al boom economico degli anni Sessanta, non vuole attingere a fini di analisi testuale e filologica. Mi mancano le armi del mestiere e non vi è neanche l'intenzione. Probabilmente è solo amarcord, o bisogno inconscio di cui recuperare un piccolo spaccato della tradizione contadina pacecota (o forse del più vasto agro ericino), che da bambino sentivo canticchiare molto spesso sulle strade terrose del paese, senza marciapiedi, con le gabbie delle galline prossime alle porte di casa e le viti a pergola che si attorcigliavano sui muri color cilestro, corrugati dalle crepe.
Forse, è semplicemente il desiderio di non disperdere, di far conoscere ai più giovani questo straordinario documento, questo canto dell'anarchia contadina, negatrice di una morale borghese bacchettona, morigerata e perbenista. È, infatti, canto sociale e sensuale insieme, riconducibile com'è al rapporto diretto tra le "quattru fìmmini" e gli oggetti, gli animali, gli avvenimenti, tutti appartenenti all'universo povero dei contadini.
Le "quattru fìmmini", di certo, simboleggiano le quattro stagioni che, belle o brutte, calde o fredde, felici o infelici, battono i tempi uguali del sudore e della fame, perché un tarì (corrispondente alla trentesima parte di un'oncia, unità di moneta usata sotto il dominio del Borboni ) è sempre "troppu pocu" per sfamare una famiglia. D'altra parte, in Sicilia, niente cambia; ogni cosa, pur muovendosi, rimane al suo posto, inamovibile, parametro di allocazioni sociali certe, stratificate, sempre eguali, metafisicamente eterne, ovvie, accettate, vere, così come "u rìzzu havi i spini", i "'addini hannu l'ali e a vacca havi i còjnna". Così come "u canali pòjtta acqua", invero genere di lusso in una regione assetata ieri come oggi.
Non deve sorprendere che il contadino siciliano, quando parla o pensa all'acqua, allude sempre al rapporto che ha col raccolto dei prodotti agricoli; non si riferisce mai all'acqua salata del mare. Il mare nella cultura contadina è continuamente esorcizzato, è il male, il cattivo destino, un luogo da cui restare lontani, è pericolo, buio, dolore, insicurezza, confine che non conviene oltrepassare (U mari 'unn' havi tavèjnni; Funnu ru mari niuru; ecc.).
Il mare, appunto, è altra cosa, è realtà che non appartiene al suo mondo, che non va letta ma solo ignorata. Per il contadino siciliano esiste solo la terra con i suoi legami, con le sue antiche servitù, con le sue regole, con le sue chiusure, con le sue oppressioni, con le sue passioni, con i suoi patimenti, con i suoi sortilegi e con le sue obbedienze (Munnu è, e munnu ha statu).
Talvolta può accadere, però, che qualcuno, senza motivo apparente, alza la testa, grida più forte, non ha paura. Improvvisa come la pioggia di marzo scoppia la rivolta, irruente e feroce, violenta e spregiudicata, felice e disorganizzata, liberatrice e perdente comunque.
La storia della Sicilia è sempre storia di dominio e di rivolta. Ecco perché il padrone e i suoi campieri mai devono dimenticare che i frutti non maturi possono essere "troppu azzenti", che c'è sempre un serpente, rosso di ribellione, che ci mette la coda e che anche la mula, animale da soma, quieta, mite, silenziosa, obbediente, paziente, umile, rassegnata, improvvisamente può tirare qualche calcio e far male. E la falce, poi, non serve solo per mietere il grano; ha anche la punta e può mietere teste.
L'allusione è tipica di un mondo riservato, inserrato nel silenzio, del dire senza dire, abituato a gesti precisi, convenzionali, che sottendono volontà non sfiorate dal dubbio.
Paradossalmente, in questo universo maschilista, l'unica certezza vera per tutte le quattro stagioni rimane la donna e il ritmare del suo seno che regala fertilità e fecondità.
La donna è la casa, il fondamento, la nicchia, l'utero, la protezione, il rifugio, la sicurezza, la famiglia, il senso dell'essere, la grande madre dei miti indo-europei che si confonde con la terra. La donna, insomma, è momento centrale del canto e, così come è in tutta la tradizione siciliana, futuro d'amore in un presente senza amore e senza futuro".

SALVATORE BONGIORNO (tratto da Paceco cinque)

Vanda Rapisardi - Voce
Domenico Sanna - Pianoforte
Jacopo Ferrazza - Contrabbasso
Fabio Sasso - Batteria
Simone Alessandrini - Sassofono

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